Siamo ormai assuefatti ?
Siamo ormai assuefatti ?
Cercando di rispettare il libretto
“Chi schivare non può la propria noia, l’accetti di buon grado”. Così sentenzia Ford nella scena finale del Falstaff, ed è in sostanza questa l’attitudine di molti appassionati di lirica davanti alle distopiche e stranianti “regie innovative”. Anche in assenza di dati statistici concreti infatti l’impressione generale è che il numero di chi non si rassegna a ciò che considera a tutti gli effetti un oscuro declino, sia in costante calo. Per contro sembrano aumentare le entusiastiche recensioni che lodano la creatività e l’originalità delle scelte registiche “post-moderne” e che altrettanto sistematicamente stroncano come antiquate e banali le messe in scena che cercano di rispettare il libretto e le relative indicazioni. Tanto entusiasmo non può non lasciare adito ad un serio dubbio: e se i recensori apprezzassero veramente le grottesche assurdità della “Regietheater”?
In altre parole, è possibile che la riproposizione sempre più insistente di messe in scena che poco o nulla hanno a che fare con la concezione dell’opera originale, abbia prodotto effetti di assuefazione?
Direzioni d’opera innovative. Aida a Linz.
È necessario “aggiornare” l’opera?
Per provare a rispondere proviamo prima a considerare la questione da un altro punto di vista: è davvero necessaria questa drastica attività di “aggiornamento” dell’opera lirica? Secondo alcuni questa strada rappresenterebbe l’unica possibilità di sopravvivenza per il genere, secondo altri essa costituirebbe la sua naturale evoluzione stilistica, adeguata ai gusti dei tempi. In realtà entrambe queste posizioni trascurano un elemento fondamentale: un genere artistico rimane vivo fino a quando continuano ad essere prodotte nuove opere, le quali riflettono necessariamente la realtà dell’epoca nella quale vengono realizzate. Questa è cosa ben diversa dalla riproposizione con presunte “letture moderne” di capolavori del passato, che per definizione non hanno bisogno di aggiornamenti. Dopotutto una delle caratteristiche generalmente riconosciute delle opere d’arte è proprio quella di essere “universali”, nel senso di essere in grado di portare messaggi ed emozioni che trascendono l’epoca e il luogo geografico del singolo artista. Al contrario, tutto ciò che non regge il passare del tempo costituisce semplice moda, qualcosa per la quale inevitabilmente si perde gradualmente interesse. Non è un caso che regie e messe in scena inizialmente considerate “innovative e geniali” vengano archiviate e dimenticate dopo pochi decenni se non dopo pochi anni, considerate irrimediabilmente obsolete e superate.
A nessuno probabilmente verrebbe in mente di “aggiornare” capolavori della pittura, della musica o della letteratura, tuttavia questo elementare buon senso sembrerebbe non funzionare per l’opera lirica. Se questo processo fosse davvero necessario, dovremmo allora considerare il genere come una forma d’arte minore rispetto alla pittura, la letteratura e via dicendo. Si tratterebbe cioè di una forma espressiva che non possiede proprio il presupposto di base di universalità che in ogni epoca caratterizza l’opera d’arte. E’ bene chiarire che non si sostiene qui che l’arte e il gusto non debbano mutare nei secoli, anzi è proprio questa evoluzione che consente la nascita di sempre nuovi capolavori.
“Ci abituiamo a cantare contro la musica”.
Introdurre messaggi che sono completamente estranei all’opera originale
Qui si considera piuttosto se sia opportuno modificare anche significativamente prodotti artistici realizzati nel passato per “aggiornarli” al presente. E’ chiaramente inevitabile che entro certi limiti le interpretazioni siano soggette a mutamenti col passare del tempo, e che in qualche modo riflettano l’epoca nella quale esse vengono realizzate. Un direttore d’orchestra, ad esempio, ha sempre un certo margine di manovra nel seguire una partitura, ma di certo non può trasformare un “pianissimo” in “fortissimo”, un “adagio” in “allegro”, o ancora revisionare completamente l’orchestrazione. In caso contrario non saremmo di fronte ad una rappresentazione (anche imperfetta) dell’opera originale, ma ad un suo rifacimento, o un “remake” per usare un termine cinematografico. Si noti come questa attenzione per l’aderenza rigorosa alla partitura è stranamente oggi più forte che mai e le modifiche derivanti da lunga tradizione come “tagli”, acuti non scritti etc., sono generalmente messe all’indice con orrore. Altrettanto rigide sono spesso le posizioni relativamente al testo cantato, per cui sono ormai bandite completamente le “buone vecchie” traduzioni in favore della “versione originale”. Questa sorta di fanatismo viene applicato perfino ad opere dove la traduzione venne approvata dallo stesso autore, come nel caso de I vespri siciliani. La stessa intransigenza però viene meno quando si tratta di regie che non solo non seguono con precisione le indicazioni del libretto (che pure ne costituiscono parte indissolubile), ma spesso ne stravolgono addirittura il senso, introducendo temi e messaggi del tutto alieni all’opera originale. Divenuta infatti banale routine l’idea di trasporre luogo ed epoca dell’azione ai giorni nostri o comunque diversi da quelli indicati dal libretto, la nuova frontiera della “novità” non può che riguardare l’essenza stessa della storia, della quale sempre più spesso viene cambiata non solo ambientazione ed epoca, ma anche prospettiva, finale e via dicendo, in nome di una presunta libertà di interpretazione.
Correttezza politica
Alle bizzarrie della “Regietheater” va aggiunto poi il fanatismo del “politicamente corretto”, vera e propria nuova religione del XXI secolo, in nome della quale viene modificato o eliminato ogni possibile riferimento a quanto non sia conforme alla nuova dottrina. Assistiamo così sempre più spesso ad “Aide” dalla pelle chiara, Turandot che evitano ogni possibile riferimento alla Cina, modifiche a termini del libretto considerati razzisti e via dicendo.
C’è sempre di peggio
E’ in questo contesto che si inserisce il processo di assuefazione: una regia che si limiti a modificare il tempo e il luogo della vicenda o che non introduca elementi completamente estranei tende ormai ad essere vista come rassicurante, se non addirittura come tradizionale, e alla fine ad essere sinceramente apprezzata anche dai più retrogradi conservatori! E’ l’effetto del “meno peggio” al quale ci si adatta, proprio in vista di un “peggio” che però è bene ricordare, non ha mai limite. Se dunque una scenografia vuota, la presenza invadente e non richiesta di mimi, costumi fuori contesto, scene fisse e squallide, etc. etc., non vi producono più perplessità e fastidio ma anzi, iniziano a sembrarvi normali e quasi “gradevoli”, o peggio “interessanti”, allora non può esserci alcun dubbio: l’assuefazione è già all’opera!
In conclusione, ci sembra opportuno citare le argute parole che Rimsky-Korsakov scrisse nel 1907 all’amico Diaghilev: “Non farmi più ascoltare questi orrori, o finiranno per piacermi!”
Condivido.
Commento con una parola universalmente usata in teatro: BRAVO! Un’analisi puntuale ed esauriente delle tristi condizioni in cui versa oggi l’opera lirica, nelle mani di registi che pensano di essere geniali inventando “stravaganze” (parola di Pierluigi Pizzi, scusate se è poco), di direttori artistici incompetenti che pensano con le stravaganze di conservare il posto, di critici succubi delle mode che pensano, lodando le stravaganze, di dimostrarsi intelligenti e all’avanguardia. E il prof. Virgili ha purtroppo ragione. Il pubblico si avvia all’assuefazione. Che tristezza.