LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO
“Aida come non l’avete mai vista”
“Aida come non l’avete mai vista”
Con questa frase – che molti appassionati hanno ironicamente commentato con un “e mai avremmo voluto vederla!” – la Fondazione Arena di Verona pubblicizzava sui social, con largo anticipo, quello che sarebbe dovuto essere lo spettacolo clou dell’attuale stagione, nell’occasione del centesimo anniversario del “Verona Opera Festival”.
Ci sarebbe stata, volendo, una scelta legata alla storia dell’opera in Arena: utilizzare le scene, ancora disponibili, della primissima Aida nell’anfiteatro veronese, quella fortemente voluta nel 1913 del tenore Giovanni Zenatello.
Prevedibilmente, la scelta è stata diversa e, a nostro parere, motivata dalle considerazioni sbagliate.
L’occasione era senza dubbio importante, anzi, si potrebbe dire solenne e perfino storica. Un secolo di opera in una cornice così speciale e sotto molti aspetti unica meritava una grande celebrazione.
Tutto sta nell’intendersi sul significato della parola “grande”.
E’ stato subito evidente, fino dalle prime immagini anticipate sui social, che – anche in vista della diretta in Mondovisione della serata inaugurale, a cui facciamo riferimento in questo nostro commento – l’intenzione non era affatto quella di rappresentare nel modo migliore, più convincente (ed anche, se vogliamo più spettacolare, poiché, tradizionalmente, il pubblico areniano si aspetta un’Aida che sia anche “un bello spettacolo”) la grande opera verdiana.
No. Si è visto subito che l’intento principale era esclusivamente quello di stupire. Quello che si voleva era l’”Oooohhhh” del pubblico. A qualunque costo.
Laser colorati puntati verso il cielo, globi luminosi sospesi, centinaia di comparse a gremire il vasto palcoscenico, quintali di lustrini (cristalli, specchietti, scaglie di alluminio, o qualsiasi cosa si potesse utilizzare e sia stata utilizzata per creare un luccichio da avanspettacolo) incastonati in un bianco e nero generale di una monotonia sconcertate.
E poi, movimenti continui e completamente slegati dal contesto, figuranti che andavano avanti e indietro senza motivo plausibile, con i cantanti spesso circondati, palpati, assediati (anche quando sarebbero dovuti essere soli) da figure simili a zombie, il cui unico scopo sembrava essere distrarre il pubblico dallo svolgersi dell’opera.
A questo possiamo aggiungere le coreografie insensate. Fatica inutile cercare di capire per quale ragione la danza dei “giovani schiavi mori” in apertura del Secondo Atto finisse con la morte di tutti i partecipanti (il cordoglio di Aida è compreso nella scena…).
Ma il meglio arrivava quando entravano in scena una ventina almeno di barelle, su cui i morti venivano caricati e, avvolti in bende, trasformati in mummie (operazione per la quale, per fortuna, erano utilizzati dei manichini). E tutta questa scena da obitorio avveniva, incredibilmente, durante il duetto fra Aida ed Amneris… mentre il pubblico, presumibilmente, cercava di capire il nesso fra le due cose.
Questo, tuttavia è solo un esempio, poiché sarebbe impossibile citare tutti gli elementi inspiegabili, inutili, incongrui, incomprensibili affastellati dal regista, Stefano Poda, in ogni scena e momento dell’opera. Le onnipresenti dozzine di mani mozzate infisse su picche agitate sullo sfondo (spiegate dei commentatori “ufficiali” RAI con la scusa che una mano mozzata è stata trovata in una tomba egizia…), i geroglifici (veri o presunti non è dato sapere), disegnati fittamente sui corpi (per fortuna coperti di calzamaglie) dei figuranti, gli immancabili, lunghi cappottoni bianchi indossati dai sacerdoti (però con l’ideogramma dell’occhio di Horus, giusto per precisare che erano sacerdoti egizi).
Un’ultima considerazione tuttavia, non possiamo esimerci dal fare su quello che, purtroppo per il regista (ed anche per la direzione artistica, che certe cose le dovrebbe sapere) è stato notato da numerosi spettatori informati dei fatti, e cioè l’indecente scopiazzatura della “manona” mobile, uno smaccato “déjà vu” del meccanismo utilizzato a Bregenz nel 2019 per un Rigoletto (anche là a sproposito) dal regista Philipp Stölzl, fatta di un materiale diverso (quella di Bregenz era di legno), ma per il resto assolutamente identica. Nonché la “citazione” – chissà se voluta, ma ridicolamente evidente, della Piramide del Louvre, in cui si auto-rinchiudono Aida e Radamés nella scena finale.
LA SOCIETA’ DELLO SPETTACOLO
Riassumendo, l’impressione riportata da chi scrive, come da moltissimi altri, è che l’intento principale sia stato quello di mettere in scena non Aida, ma unicamente qualcosa di spettacolare, qualcosa che riempisse l’occhio e desse un’impressione di opulenza. Una specie di spettacolo hollywoodiano anni Cinquanta, con la scena invasa da legioni di ballerine ornate di piume, qui sostituite da legioni di figuranti ornati di lustrini (magari applicati a caschi da motociclista… c’era anche questo).
Insomma, lo spettacolo per lo spettacolo.
👍👍👍👍