Uno svago per turisti?
Se un tempo l’opera lirica veniva identificata quasi esclusivamente con gli interpreti musicali e in particolare con i cantanti, nel corso del novecento e soprattutto nel nuovo millennio si è andata gradualmente affermando la figura del regista/scenografo, che molto spesso accentra l’attenzione di pubblico e critica. Il grande interesse verso gli aspetti di regia e di messa in scena delle attuali produzioni è dovuto almeno in parte alle innovative “chiavi di lettura” (non sempre particolarmente illuminanti) e alle relative re-interpretazioni sulle quali vengono spesso indirizzate le discussioni di esperti ed appassionati. In realtà questo risalto dato ad elementi che in passato erano considerati secondari nasconde un problema vero, che concerne a nostro avviso il futuro stesso della lirica.
Procediamo per ordine: è quasi ovvio affermare che un’opera costituisca innanzitutto un fatto musicale. Ciò è confermato dal fatto che (senza togliere il giusto riconoscimento ai librettisti) i principali autori delle opere sono per l’appunto musicisti, e che di lirica si parli principalmente nell’ambito della storia della musica. A riprova di ciò possiamo anche osservare come sia possibile eseguire un’opera in forma di concerto (o in forma semi-scenica), mentre non avrebbe senso il contrario, ossia una messa in scena priva dell’elemento musicale. Possiamo insomma facilmente riconoscere come la gran parte del valore di un’opera lirica sia costituita dalla componente sonora, e solo in misura minore dalla sua messa in scena. Come mai dunque l’attenzione è così spesso focalizzata su aspetti che dovrebbero avere in fin dei conti (e in effetti avevano) rilevanza secondaria? O in altri termini, come mai gli elementi di interesse e di novità sono relegati principalmente alla componente registica?
La risposta va ricercata a nostro avviso nella drastica diminuzione della realizzazione di nuove opere, e allo stesso tempo nella consistente riduzione della varietà di quelle comunemente rappresentate. La riproposizione di un repertorio sempre più ristretto in favore dei “soliti” titoli di successo infatti non può che indebolire alla lunga l’interesse della critica e del pubblico di appassionati, che si ritrovano in qualche modo costretti a rivolgere l’attenzione agli unici elementi di “innovazione”, costituiti essenzialmente dalle rivisitazioni più o meno (in)sensate operate dalle regie moderne.
Vale forse la pena quantificare con qualche cifra le affermazioni precedenti, prendendo come riferimento le produzioni del Teatro dell’Opera di Roma nell’ultimo decennio e confrontandole con quelle relative a circa un secolo prima [1]. È bene precisare come complessivamente i programmi presentati dal teatro romano siano tra i più aperti, sia alle nuove composizioni che a titoli non necessariamente di “grande richiamo”, anche se sempre di indubbio valore artistico.
Tosca #1
L’analisi dei programmi delle recenti stagioni mostra come nel periodo 2013-2024 siano state proposte 74 opere diverse, in rappresentanza di 35 compositori, delle quali 3 contemporanee (musicate da Battistelli, Colasanti e Montalti). Il primato spetta come prevedibile a Verdi con 13 titoli differenti, seguito da Puccini (8), Donizetti (6) e Mozart (5). Se consideriamo però anche il numero di edizioni diverse della stessa opera presentate nel corso degli anni, troviamo ai primi posti Verdi e Puccini entrambi con 22 produzioni, seguiti da Donizetti, Mozart e Rossini con 7. L’opera più rappresentata è Tosca (10 edizioni), seguita da La traviata (5) e da Turandot (4).
Tra gli autori meno popolari proposti vanno ricordati almeno Auber, Berg, Britten, Janáček, Poulenc, Prokofiev e Ravel.
Tosca, la più rappresentata
D’altra parte, se ora proviamo a considerare la produzione offerta dello stesso teatro in un decennio della prima metà del secolo scorso, troviamo ben 165 opere relative a 68 compositori diversi, delle quali 20 in prima assoluta. Tra queste ultime ricordiamo giusto a titolo di esempio le opere di Alfano (Cyrano), Casella (La donna serpente), Malipiero (La favola del figlio cambiato), Pizzetti ( Lo Straniero ), Respighi ( La fiamma ), Wolf-Ferrari ( La vedova scaltra), Zandonai (La farsa amorosa) [2]. Il primato del maggior numero di opere rappresentate spetta ancora a Verdi (12 opere differenti), seguito da Puccini e Mascagni (9) e Wagner (8). L’opera maggiormente presente è Aida (8 edizioni), seguita da Lucia di Lammermoor, Carmen e La traviata (7), e ancora Cavalleria rusticana, La forza del destino, Il trovatore e Turandot (6). Osserviamo anche come tra i numerosi titoli oggi quasi dimenticati si trovino opere quali Loreley (Catalani), Arianna e Barbablù (Dukas), Martha (Flotow), Il Guarany (Gomez), Sadko (Rimsky-Korsakov), giusto per citarne alcune.
Wolf-Ferrari, La vedova scaltra
Il precedente confronto non lascia adito a dubbi: nonostante l’ottima programmazione generalmente adottata dal Teatro dell’Opera di Roma, il numero assoluto di opere e di autori rappresentati si è di fatto dimezzato, mentre le prime assolute sono quasi sparite. Non possiamo qui addentrarci nelle molteplici ragioni di questo drastica riduzione, purtroppo non limitata al mondo della lirica, ma è un chiaro dato di fatto sul quale riflettere. La mancanza di varietà e di novità viene oggi di fatto sopperita dalla “creatività” delle regie e delle messe in scena. In un precedente articolo avevamo sottolineato come la scarsità di creazione di opere veramente originali fosse un segnale poco incoraggiante per il settore. È lecito domandarsi quanto questo andamento possa realisticamente garantire un futuro remoto alla lirica, una volta che anche l’interesse per queste rivisitazioni (anche le più improponibili) verrà meno. In questa prospettiva purtroppo il genere rischia sempre di più di divenire semplice “svago per turisti”, categoria che già oggi costituisce parte consistente del pubblico, in particolare quello delle arene. Una prospettiva triste, se si pensa che nel 2023 proprio l’arte della lirica è stata proclamata dall’UNESCO come “patrimonio immateriale dell’umanità”.